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giovedì 29 ottobre 2009

Lo stato comatoso dell'atletica italiana

Ho accettato la richiesta di amicizia su FB arrivata da WebAtletica e da qualche settimana di tanto in tanto frequento il sito. Che non è affatto tenero con l'attuale dirigenza federale, in particolare con il suo presidente Arese. E non è certo il solo.
Non so, e comunque non mi interessa più di tanto in questo momento, se quella di Arese sia stata una buona gestione.
Non so quanto le zero medaglie di Berlino siano da attribuire a colpe di questa dirigenza.
Di sicuro i motivi del tracollo sono tanti. E le giustificazioni anche condivisibili. Cominciando da una concorrenza terribile, con ben 32 nazioni a medaglia.
Va detto che se fosse arrivato un'oro - evento non così improbabile con un pizzico di fortuna - l'Italia sarebbe stata al 16° posto del medagliere, al pari con Slovenia, Croazia, Nuova Zelanda e Barbados. Un pelo dietro la Spagna. Un pelo davanti la Francia.
Tuttavia, la fortuna era girata da un'altra parte e medaglie non ne abbiamo viste.

In questi mesi diagnosi sul momento difficile dell'atletica azzurra ne abbiamo lette tante. Ma l'assenza di medaglie, fra tutti i segnali dello stato comatoso dell'atletica italiana, è forse il meno importante.
Davvero, senza necessariamente sperare nei miracoli, due o tre medaglie (con un pizzico di fortuna) sarebbero potute arrivare. E se lo fossero, non saremmo qui a piangere per il peggior mondiale di sempre.

Il segnale più deprimente è un'altro. Ne parlavo proprio ieri con un grande dell'atletica di trent'anni fa. Anni in cui le vere punte erano solo due (Mennea e Simeoni) e medaglie alle Olimpiadi ne arrivavano comunque pochine. Ma che hanno lanciato la volata ai favolosi '80, anni in cui, per dire, si vedevano podi per due o tre terzi azzurri nelle gare di mezzofondo. Anni in cui le medaglie arrivavano dalla marcia e dalla corsa lunga, dai lanci e dal mezzofondo veloce, dai salti e dalle staffette.

Cosa avevano di straordinario quegli anni '70? Ricordavamo ieri i campionati regionali lombardi: si correvano 36 serie dei 100. Sei o sette serie dei 10.000. Dodici-quindici dei 1.500. I 10.000 e i 5.000 si correvano normalmente dopo le dieci di sera. Ricordo riunioni a Merone terminate dopo la mezzanotte su una pista illuminata dai fari delle auto. E lo stesso succedeva nelle altre regioni.
Chiaro che il 99% delle migliaia di atleti che scendevano in pista o in pedana non aveva speranza alcuna di vincere non le Olimpiadi ma nemmeno il campionato regionale.
Ma c'era entusiasmo, ci si divertiva anche, e molto. E non è che l'atletica si facesse così, per gioco, solo quando non c'era di meglio da fare. C'era tanta gente che correva i 100 in 11.8 o i 1.500 in 4'20" che si allenava tutti i giorni con serietà.

Provate oggi ad affacciarvi all'Arena di Milano il giorno dei campionati regionali. Fra junior, promesse e senior si riesce a malapena a mettere insieme 10 serie dei 100 (da 5-6 atleti per serie); i 5.000 li corrono in 9, le siepi in 4. Quattro atleti nelle siepi in Lombardia? Stiamo parlando della gara frequentata da gente come Fava, Scartezzini, Gerbi, Panetta, Lambruschini, mica del lancio del cellulare o della corsa sui tacchi a spillo in via Condotti (entrambe competizioni che peraltro hanno attirato centinaia di partecipanti). Roba da gettare nella depressione anche i più ottimisti.
Questo, sì, è davvero segno della crisi dell'atletica (e anche della crisi dei tempi).

Vado a memoria, ma mi pare di ricordare che in quegli anni la Fidal contasse intorno ai 250.000 tesserati. Una media città italiana che faceva atletica. Nel 2008 erano poco più di 153.000. Dei quali circa 63.000 master. Categoria degnissima per carità ma non sono i master a determinare la qualità di un movimento, la capacità di reclutamento e in definitiva la capacità di vincere un giorno medaglie nei grandi eventi.

PS - Guardando le statistiche pubblicate dalla Fidal c'è proprio poco da stare allegri. Sebbene il calo di tesserato tra il 2007 e il 2008 sia stato modesto, le categorie junior, promesse e senior hanno perso dal 7 al 10% di tesserati.


lunedì 19 ottobre 2009

Siamo vittime dell'albitrarietà

Notiziario del mattino di Radio24.
"E ora passiamo allo sport. Giornata calcistica all'insegna delle polemiche sugli arbitraggi".
Mavalà?

mercoledì 14 ottobre 2009

Perché oggi sono un po' triste


L'ho già scritto. Ci sono alcuni giornalisti che vale sempre la pena di leggere, anche si trattasse di un commento all'elenco telefonico. Non solo perché la natura e il mestiere li hanno dotati di una bella prosa. Perché non sono banali, perché ti offrono un punto di vista diverso, perché ti fanno pensare, perché non fanno solo cronaca ma raccontano una storia, perché ci mettono un misto di cuore, di cervello, di frattaglie.
Corrado Sannucci era uno di questi. Un paio di giorni fa leggevo su Repubblica un pezzo sulla "possibile" candidatura olimpica di Hiroshima e Nagasaki. Arrivato alla decima riga mi sono detto "Ma questo è Sannucci". Ho provato a chiamarlo per dirgli quanto il pezzo mi fosse piaciuto e, poiché ciò mi avrebbe imbarazzato, aggiungerci anche un paio di fesserie. Ma il cellulare suonava a vuoto. Ho riprovato il pomeriggio del giorno dopo, ma oramai era tardi.
Come a molti, mi mancherà. Ma sono contento non solo di averlo letto ma anche di averlo conosciuto.
E' successo nel '97 ad Atene ai mondiali di atletica. Da un anno seguivo Sportline, il sito "dello sport raccontato dai protagonisti". Poco prima i marciatori, che si sentivano trascurati dalla federazione, si erano messi in silenzio stampa e parlavano solo attraverso Sportline. Va da sé che la cosa non era stata molto apprezzata dai vertici federali e non solo da loro. Corrado era quello che ogni giorno passando da Casa Italia si fermava a chiedere i pezzi scritti dai marciatori. Aveva le sue idee ma non pregiudizi, voleva capire. E mi aveva colpito per il suo prendersi piuttosto poco sul serio, qualità assai rara.
Un altro ricordo è legato a un sabato sera a Praga di alcuni anni fa. Mi ci trovavo per la maratona di cui seguivamo l'ufficio stampa. Corrado, invece, era al seguito della nazionale per una poco significante amichevole Rep. Ceca - Italia. Finita la partita mi chiama dicendo di volere intervistare Franca Fiacconi, atleta, diciamo così, controversa, che avrebbe corso la maratona il giorno successivo. Abbandono la cena pre-gara e quindici minuti dopo ci troviamo nell'hotel quartier generale della gara. Fiacconi e marito sono al ristorante, non troppo convinti di dialogare con un giornalista. Di Repubblica, poi (forse confondendolo con Corrado Zunino, che tempo prima non era stato propriamente tenereo con la maratoneta romana). L'ora successiva è stata una vera lezione di giornalismo. Finita l'intervista, per un'altra ora restiamo noi due soli, cenando a nostra volta e bevendo vino ed è l'occasione per farmi raccontare del Folkstudio, delle sue vite precedenti, per quali strade fosse arrivato fin lì. In quei sessanta minuti o poco più c'è il perché sono contento di averlo conosciuto.

domenica 11 ottobre 2009

Porca misera, c'è del fumo in cabina


Non so bene cosa sono ma se dovessi definirmi forse mi definirei "liberal" o qualcosa del genere, con qualche forzatura addirittura tollerante.
Sono convinto, ad esempio, che se uno decide di non essere fumatore per me è liberissimo di non esserlo. Non sarò certo io a convincerlo o a obbligarlo a fumare.
Esattamente come penso che chi odia le discoteche abbia tutti i diritti di non frequentarle, chi non sopporta le ostriche abbia tutti i diritti di non nutrirsene, chi non beve almeno due litri di acqua al giorno sia liberissimo di non berli, chi va con lo zoppo possa anche non imparare a zoppicare. Chissenefrega, sarà mica la fine del mondo.

Poi, chiaro, non è che si possa essere liberal a tutto tondo. Ci sono delle cose che proprio non sopporto e che proibirei senza se e senza ma. Non tollero ad esempio quelli che il sabato indossano la tuta e vanno al supermercato a fare la spesa; se poi ai piedi infilano il mocassino nero vedo poche alternative alla fucilazione sul posto. E, come tutti, penso che se:
  1. tutti avessere le stesse mie idee (che sono ovviamente giuste) e i miei gusti (che sono senza dubbio i più qualificati)
  2. le decisioni (quelle importanti che riguardano i destini del mondo, non che cravatta annodarmi al collo la mattina) potessi prenderle solo io
il mondo sarebbe un luogo assai più gradevole per viverci.

Tutto questo e anche altro pensavo leggendo la notizia del camionista multato di 300 dollari canadesi in Ontario perché sorpreso a guidare con la sigaretta in bocca (ripresa anche da Ennio Caretto sul Corriere). Mica perché nell'Ontario ci sia una legge che proibisce di guidare fumando. Nemmeno una che vieti di fumare guidando. Però ce n'è una che proibisce il fumo nei luoghi di lavoro. Per cui il solerte poliziotto che si è visto sfilare davanti il truck nella cui cabina si riconosceva chiaramente la brace di una sigaretta allegramente penzolante tra le labbra del driver non ha avuto dubbi. Si è mai visto un guidatore di truck che va a fare surf col truck? o che va a scampagnare col truck? No. Quindi costui sta senza dubbio lavorando. E la cabina, non v'è dubbio, è il posto di lavoro . Ed è scattato il multone.

La cosa è finita sui giornali e il malumore, gli interrogativo e i dubbi hanno iniziato a serpeggiare.
L'abitacolo di un tale che si sposta con la sua auto dal punto A al punto B per lavoro, è un luogo di lavoro?
E il lavoratore che un giorno decidesse di lavorare da casa, potrebbe fumare una sigaretta in tinello?
Per un camionista fa differenza se il truck è suo-suo (un padroncino) o del suo datore di lavoro?
E l'asfaltatore che lavora all'aperto? Come regolarsi?

E' che i canadesi sono un popolo normativo. Nella provincia dell'Alberta, ad esempio, è in vigore dal 2008 una legge che, tra le altre cose, vieta di fumare a meno di 5 metri dall'ingresso (e anche dall'uscita, metti che qualcuno faccia il furbo) degli edifici pubblici. Quindi capita di imbattersi in cartelli come quello qui sotto che intimano di spegnere la sigaretta (o in alternativa di attraversare la strada).